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Cassazione. Paziente muore per farmaco sbagliato.

Il medico incaricato dell’anamnesi, in presenza dell’infermiere coordinatore, aveva segnalato un’allergia all’amoxicillina. Ma in reparto gli viene comunque prescritta dal medico e somministrata causandone il decesso. Per la Corte l’infermiere coordinatore aveva comunque l’obbligo di vigilare e segnalare l’errore essendo a conoscenza dell’allergia del paziente. LA SENTENZA

12 FEB – La Corte di cassazione (sezione IV, sentenza 16 gennaio 2015, n. 2192) torna sulla responsabilità infermieristica e sulla posizione di garanzia in capo a ogni esercente la professione sanitaria su un caso interessante di responsabilità professionale che trae origine da un errore medico nella prescrizione di un farmaco.
Il fatto è degno di essere attentamente ricostruito – per quello che è possibile fare all’interno di una sentenza della Corte di cassazione, non essendo conosciuti i riferimenti dei precedenti gradi di giudizio di merito – nella sua interezza.

Un medico durante l’anamnesi (curiosamente chiamata “intervista” nella sentenza) di un paziente – avvenuta alla presenza di un infermiere coordinatore – rileva l’allergia all’amoxicillina del paziente stesso.
Il farmaco viene lo stesso prescritto e successivamente somministrato, all’interno di una sala operatoria, da un’infermiera, causandone la morte in “pochi secondi”.

In primo grado entrambi gli infermieri vengono assolti. In appello viene assolta l’infermiera somministrante e condannato l’infermiere coordinatore  in quanto la Corte di appello “ha evidenziato la concreta sussistenza di una “specifica posizione di garanzia” in capo all’infermiere coordinatore.  Tale posizione di garanzia viene posta a tutela dell’incolumità del paziente, “tenuto conto, in particolare, della qualifica professionale di vertice rivestita dall’imputato, onerato di precisi doveri sinergici di organizzazione, di gestione, di sovraintendimento e di segnalazione”.
Sostanzialmente si è contestato all’infermiere coordinatore “la trascuratezza …nell’omettere di procedere alle dovute segnalazioni ai fini della correzione degli errori contenuti nella documentazione clinica riguardante il paziente”. A fronte, cioè  dell’errore medico, il coordinatore aveva l’obbligo di “sottoporre a una nuova verifica, o a un più accurato controllo, detta documentazione clinica”. Omettere tale segnalazione significa violare “le regole imposte dall’arte infermieristica”.

Nel ricorso per cassazione il coordinatore produce tre motivi di impugnazione di nostro interesse. Nel primo contesta l’omessa valutazione di tre circostanze: la prima legata alla mancata disponibilità materiale della cartella il giorno dell’intervento; la seconda circostanza è relativa all’assenza del coordinatore dall’ospedale, “nei due giorni precedenti l’intervento” per turno di riposo “durante i quali il personale medico avrebbe dovuto provvedere alla verifica e ai necessari controlli sulla correttezza delle prescrizioni terapeutiche disposte nei confronti del paziente”. Ultima circostanza non valutata – secondo il coordinatore – era relativa al fatto che la materiale somministrazione fosse avvenuta in sala operatoria dove erano presenti altri due coordinatori.

La Suprema Corte individua la fonte della responsabilità del coordinatore nella posizione di garanzia richiamando le leggi di abilitazione all’esercizio professionale (legge 42/99, profilo professionale ex DM 739/1994, legge 251/2000 e 43/20006) e  gli obblighi costituzionali ex art. 3  e 32 Cost.

Come è noto la “posizione di garanzia” si sostanzia nell’obbligo “giuridico che grava su specifiche categorie di soggetti previamente forniti degli adeguati poteri giuridici, di impedire eventi offensivi di beni altrui, affidati alla loro tutela per l’incapacità dei titolari di adeguatamente proteggerli” (Mantovani, 2001). Con la posizione di garanzia si crea uno speciale vincolo tra il soggetto debole e il “garante”, tra chi, in questo caso l’infermiere, deve preservare da danni il paziente indicato come soggetto debole.

Viene riconosciuta al coordinatore la posizione di garanzia, classificata dalla dottrina giuridica come di concezione mista “sostanziale-formale”, che trova le sue fonti nella Costituzione e nella normativa di settore. Non è una novità assoluta: è dalla fine degli anni novanta dello scorso secolo che l’elaborazione della posizione di garanzia viene sempre maggiormente riconosciuta alle professioni sanitarie. L’elemento di novità di questa sentenza risiede nel riconoscimento all’infermiere coordinatore, tenuto conto, come abbiamo visto, della “qualifica professionale di vertice rivestita” da cui conseguono “precisi doveri sinergici di organizzazione, di gestione, di sovraintendimento e di segnalazione”.

In questi ultimi decenni, pur nella imprecisione delle non chiarissime norme di carattere contrattuale e legislativo, abbiamo assistito al consolidamento della figura del coordinatore come figura, quanto meno di fatto, tendenzialmente gestionale.  Sicuramente più spostata verso l’attività organizzativa che non quella clinica. Il coordinatore non viene di conseguenza percepito come l’equivalente, nell’ambito del comparto, della figura ex primariale della dirigenza, che come è noto, conserva una importante attività clinica da affiancare alla funzione gestionale. Il coordinatore nei fatti è verosimilmente – insieme alle posizioni organizzative del comparto – l’unica figura sanitaria gestionale praticamente a tempo pieno.

Questa sentenza restituisce al coordinatore una competenza clinico assistenziale e, di conseguenza, la responsabilità connessa. Non solo aspetto gestionale ma, quindi, anche compiti di “sovraintendimento” (ovviamente clinico) e di “segnalazione”.

Tra l’altro, al coordinatore è stato anche contestato, un altro aspetto “assistenziale”. Nei giorni precedenti egli stesso aveva somministrato un anticoagulante al paziente, in previsione dell’intervento chirurgico poi rimandato, e nell’annotazione “di tale circostanza sulla scheda di terapia unica   aveva tralasciato di riesaminare con attenzione detta scheda, sulla quale era già stata riportata la prescrizione del farmaco X. , antibiotico della famiglia delle penicilline, senza rilevarne (e conseguentemente segnalarne l’occorrenza al personale medico e infermieristico interessato) la chiara incompatibilità con l’allergia”. La mancata segnalazione, dunque, dell’errore medico come causa prima della condanna (per omicidio colposo). Il processo di somministrazione dei farmaci deve essere portato avanti dall’infermiere in modo “non meccanicistico (ossia misurato sul piano di un elementare adempimento di compiti meramente esecutivi), occorrendo viceversa intenderne l’assolvimento secondo modalità coerenti a una forma di collaborazione con il personale medico orientata in termini critici.

Quindi collaborazione nei confronti del medico in modo critico laddove si possano supporre errori a danno di pazienti. Questo, precisa la Suprema Corte, non viene attuato “al fine di sindacare l’operato del medico (segnatamente sotto il profilo dell’efficacia terapeutica dei farmaci prescritti), bensì allo scopo di richiamarne l’attenzione sugli errori percepiti (o comunque percepibili), ovvero al fine di condividerne gli eventuali dubbi circa la congruità o la pertinenza della terapia stabilita rispetto all’ipotesi soggetta a esame”. In caso di dubbi compete all’infermiere la segnalazione al medico. Questo si colloca in una consolidata giurisprudenza.

In un’antica sentenza la Corte precisò che in caso di errori e di dubbi sulla prescrizione era compito dell’infermiere di “attivarsi…..al precipuo scopo di ottenerne una precisazione per iscritto che valesse a responsabilizzare il medico e a indurlo a una eventuale rivisitazione  della precedente indicazione…”. Con le parole della cassazione di oggi, in seguito all’errore di una prescrizione, derivano, nei confronti dell’infermiere “obblighi giuridici di attivazione e di sollecitazione volta a volta specificamente e obiettivamente determinabili in relazione a ciascun caso concreto” (Corte di cassazione, IV sezione, sentenza n. 1878/2000).

Sempre di più, quindi, responsabilità all’interno dell’équipe, anche se questo caso non può essere annoverato come classico caso di responsabilità di équipe. In quest’ultima responsabilità, infatti, l’agire professionale è caratterizzato dal c.d. “principio dell’affidamento”. Il principio dell’affidamento consiste nel “rendere responsabile il singolo professionista del corretto adempimento dei compiti che gli sono affidati e di fatto sgravarlo dall’obbligo di sorvegliare il comportamento altrui al superiore fine dell’interesse della vita e della salute del paziente” (Fiandaca G, Musco E, 1995). In questo caso, coerentemente con un filone interpretativo ormai pacifico, non era applicabile il principio dell’affidamento in quanto il coordinatore avendo agito colposamente omettendo la segnalazione, non poteva confidare nell’eliminazione dell’errore da parte di chi gli succedeva nella posizione di garanzia.

A parte queste annotazioni strettamente giuridiche, la notazione finale a cui possiamo giungere è relativa alla stretta intimità di rapporti tra professione medica e professione infermieristica nell’agire quotidiano.
Luca Benci
Giurista

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